Mi ha sempre incoraggiata nella vita la scelta prioritaria di essere prima una persona libera, poi un’artista. Sapevo che se avessi saputo mantenere questa combinazione esistenziale la mia sarebbe stata una strada difficile, ma anche ricca di senso. Su questa strada, in effetti, sono sempre stata considerata un personaggio di difficile definizione: sperimentatore libero da conformismi, ho assimilato esperienze lavorando a diversi piani di ricerca creativa nell’ambito non solo dell’arte ma anche del teatro, del cinema, del design, della decorazione … alla base di una continua indagine di tecniche e di materiali inconsueti, col metro del mio poiein. Tutto ciò nutrita fondamentalmente di idee, vale a dire più propriamente di immagini che la mia mente assume attraverso un modo di guardare le cose penetrante che segna una frattura rispetto a metodi tradizionali e sperimenta nuove forme espressive. Già Croce parlava in senso artistico di “un’intuizione che si fa espressione”. Questo è ciò che si cela dietro le mie sperimentazioni trentennali sulla carta, la plastica, il metallo, la stoffa, il vetro…dove parto dalla qualità visibile e tattile della realtà di oggetti indifferentemente naturali o artificiali, fino a cercare di far diventare arte la realtà rinvenuta spesso dalle discariche consumistiche. Il mondo che mi circonda non è più soggetto di rappresentazione, ma sottratto al flusso quotidiano per essere oggetto stesso dell’espressione artistica personale. Non mi accontento però di disinvestire un oggetto della sua funzione, senza alterarlo in alcun modo, per farne un oggetto da museo, ma attuo una manipolazione, significo diversamente, proprio attraverso un moto di compartecipazione metamorfica. Come sostengono sia Adorno sia Benjamin, se l’arte è una forma di conoscenza, il suo “contenuto reale” comporta un mutamento necessario negli oggetti e nelle tecniche che pone in atto. Sarà poi il “contenuto di verità”, a determinare il significato dell’opera, che è tale perché scelta e collocata in un ambito appropriato dall’artista, piuttosto che per la sua originalità o “sacralità”.
Bandita la razionalità, non di meno, mi piace qui esaltare tutto ciò che nel lavoro artistico sembrerebbe casuale e privo di senso, ma che si rivela capace di massaggiare il muscolo atrofizzato di una società sempre più sottoposta come quella attuale alla civiltà dell’immagine e dello spettacolo. Percorso ben sintetizzato tra le pagine che Gillo Dorfles mi ha dedicato nella sua ultima pubblicazione “Gli artisti che ho incontrato” nella collana Skira paperbacks. Fare Arte, a cui è affidato, comunque, anche il compito di ri-plasmare un tempo indimenticabile di eventi di dolore o conflitti personali che nella realizzazione pratica dell’opera trovano uno sbocco ed una sublimazione senza i quali resterebbero inenarrabili ed inaccettabili. Il modo di fare arte – che si imprime sull’occhio, l’emozione, il tempo e la luce che trascorre nella nostra società – è diventato per me essenziale coniugarlo nel tempo con una forma di didattica attiva rivolta ai più giovani che ruotasse intorno a una riflessione estetica sulla eco-sostenibilità del nostro pianeta e dell’economia che governa le persone. Sono trascorsi ormai vent’anni dalla docenza del laboratorio educativo di Ecodesign e Decorazione, realizzato presso l’Accademia di Brera di Milano, che mi permette di contribuire a formare l’intelligenza artistica degli studenti soprattutto attraverso fatti, osservazioni di un’attività di sperimentazione capace di covare idee e farle parlare per suscitare altre idee. Perché in definitiva questo è quello che fa emergere il talento e il rinnovamento dei linguaggi espressivi: idee autonome, soprattutto paradossali, fuori dalla convenzione; che nei secoli hanno invaso spesso la mente collettiva della società fino a farli diventare ideologia.