E’ ancora, l’arte, uno status symbol dei prosperosi ceti della società di massa occidentali? Non so, non direi, ho un brutto presentimento. Anche per l’inizio di questa nuova stagione artistica si profila una Falce di luna decrescente tanto freddina. Ovvero fantasmi e conti fatti: Istituzioni depresse, Gallerie mezze chiuse, Collezionisti latitanti e Vendite zero…Pettegolezzi di critici? Si e no, gridare al lupo copre il Nudo oggetto che scende il mercato e anche l’attuale Silenzio d’artista così diffuso che assorda… Qualcosa langue e non solo per colpa della crisi economica. La gente non è più guardona, ora è di nuovo guardinga: che non gliene importi più un dada?
Pubblicità, catechesi materialista. Scarseggia molto presso gli artisti in catalogo, e la loro effimera fama di eterni non riesce più a tenere alte le quotazioni; anche perché da tempo – da quanto? Un decennio? Un trentennio? – alla post-avanguardia mancano proprio nuove Correnti e nuovi Geni, nuove Immagini e Novità nuove… Ho il brutto presentimento che l’arte postmoderna, questo ramo antico ma rifiorito della religione, non sia più considerata un Progresso utile per la Pubblicità, né peraltro sia in grado di riacquisire quello stato di Fondamento da proteggersi con la catechesi che sorregge la nostra Chiesa e il loro Islam.
Onestamente, oggi non saprei più quali idee pubblicizzare dell’arte. Mentre il mondo che cambia tanto in fretta ha le sue cose epocali – lì, le transizioni millenarie e miliardarie – noi invece più niente, adesso sul momento siamo un po’ in ritardo, non facciamo granché… Ma potremmo escogitare qualche progetto più illuminante di altri. Quale sarebbe, ad esempio, quello di riportare in galleria qualche famoso simbolo di potere – nella comunicazione, nel consumo, nella catechesi materialista – e per suo tramite sondare o sondeggiare se per caso l’opera d’arte simboleggi partecipazione, creatività e potenza, ancora e tuttora.
Ecco, coincidenza vuole che l’intrepida Maria Teresa Illuminato apra proprio un’opera fresca, una mostra spumeggiante di staus symbol fra i più noti e i più teneri della produzione planetaria… dunque si ponga la domanda: ma l’arte è ancora ambita dai più? (Io aggiungerei personalmente: se molti degli artisti che la fanno, l’amano anche…Perché la disgrazia del disamore, caso mai avvenisse, originerebbe solo da lì, dei dis-artisti). MI pare assolutamente evidente la calorosa risposta di Maria Teresa Illuminato: l’arte, lei l’ama sempre.
Mi piacciono in particolare alcune sue composizioni di bottigliette Coca-Cola messe a raggiera. Le direi kit per caleidoscopi, con l’istruzione di frantumare le bottiglie, seppure di carta, e ricavarne i più variopinti vetrini ballerini… Coincidenza vuole che l’artista abbia assegnato – nella nostra banda di critici che dovrebbero procurarle un bottino da un miliardo di musei – proprio un camion della Coca-Cola con l’ordine di stappare e interpretare… Niente di fresco, niente da bere, avrei preferito i jeans unisex… Beh, me li voglio ben rigirare questi cocascopi, queste carte cole, che nascondono qualche intrigante specchietto semantico.
Vedrei più di quattro status symbols, in questo ciclo che Maria Teresa ha dedicato ad orologi e pantaloni, alle coke e alla cinquecento, qui sono cinque: guarda c’è il pezzo, l’artwork, l’artefatto, i venti punti o quanto è, aggiungi pure l’opera d’arte. Un quadro è un importante simbolo sociale; o perlomeno lo è stato fino a ieri mattina.
Per quanto oggi si tenda ad uscire dall’autonomia dell’arte, per migrare in campi di relazione più ampi, resta pur evidente ce i quattro prodotti di larghissimo consumo qui inscenati, la scultrice li ha rielaborati in materia, scala, disegno, colore e funzione; dunque in oggetti estetici. Non solo, ma almeno due di quei prodotti appartengono già alle cronache dell’arte, all’imagerie del museo, dove la Coke è di Schifano se non è di Warhol, e lo swatch è della Swatch firmato Paladino. La scultrice vede rafforzato il loro valore di status symbol proprio dal trattamento che i relativi loghi e mitologie hanno ricevuto in tempi recenti da molti artisti, in particolare pop, e ovviamente ne rafforza a sua volta l’artisticità coi propri rilievi cartacei a grande scala multicolore. Ma perché pigiare sull’acqua calda? Certo questa è arte, che piaccia o no (se ne parli bene o male, purché la si guardi). Un quadro, una statua, sono importanti simboli di status sociale, che però non sono più tanto sicuri di esserlo. Nel dubbio, osserverei lo status del quadro, lasciando la Coke alla dea Pandora.
Atri non avranno tralasciato di notare che i Jeans e la Coca-Cola, la Fiat 500 e gli Swatch – le quattro colonne di questo ciclo di simulacri – sono i prodotti imperiali della globalizzazione planetaria, divenuti tali in tempi e luoghi diversi (la 500 fu più che atro un prodotto nazional-popolare, caro alla nostra giovinezza italiana, che ogni tanto ritorna); e in quanto imperiali dominano la circolazione delle opere d’arte non solo nella scala macroeconomica ma anche in quella estetica, superandole in fatto di gusto ed emblematicità, ciò che favorisce un revival della visione eteronoma di tipo mimetico – quale già emerge dall’incanutita generazione di giovanissimi bipartisti che contemplano l’evoluzione post-human delle nostre carni e delle gelose credit cards per il futuro allo stesso modo in cui quelli della terza età non possono evitare di scrutare il loro aging; quella mentalità scopica, condizione pubblica del vedere, che fa dire “ma quel quadro è una finestra sul condominio” pur nel desiderio di più alti traguardi metafisici; oppure dice “quelle carte non sono i jeans che pure li sembrano, lo vedo bene, però aprono la zip sulla potenza del simbolo e, visto che sono status symbol tutti e due, beh! Io preferisco i bei jeans che mi fanno cuccare di più”, insomma, la subalternità al reale o la contaminazione coi rifiuti.
Altri avranno fiutato i pericoli dell’eccessiva commistione fra i prodotti di consumo e l’oggetto d’arte che ormai dura da un secolo; non vorrei essere il solo a tornare dal supermarket con la plastica piena di arte e scoprire che Sotheby’s l’avrebbe messa all’asta se non me la fossi mangiata. In effetti, gli Status Symbols ampiamente ricreati da Illuminato non sono affatto contaminati dal prodotto di consumo, anzi in parte lo rigenerano, perché stanno al supermarket come la muta del serpente alla sua vecchia pelle.
Ma nella fretta di catalogare e criticare moti rischiano di considerare questi artefatti a partire dalla sociologia post-industriale, come surrogati di quei prodotti di massa, come un ennesimo surrogato del buon vecchio, aristocratico readymade; nel confronto sociale, la forza simbolica costituirebbe un mero riflesso, peggio una transustanzione.
L’arte assumerebbe uno stato di arbitrio, un senso di bugia esagerata, se offrisse a Eva una coca mela che non si deve bere (fu quello il primo status symbol), dopo averla presa dall’albero delle coca cole che Eva beve ogni giorno nell’eden.
Maria Teresa Illuminato è un’artista oggettuale che prova un’attrazione profonda per le radici materiali e formali delle cose, dai manufatti, dai beni comuni; altre volte le ha raccolte direttamente in assemblaggi trasformati in scene segrete, ora le ricrea e le traspone in un sapiente teatro dell’iconografia. Difficilmente la si può considerare una bricoleur dell’appropriazione novorealista, della letteralità pop, del passaggio meccanico di immagini – mi pare di averlo già detto. Lei utilizza gli Swatch e le Coke non diversamente da come Cezanne implicava le sfere e i coni sei suoi paesaggi; sono i mattoni del suo linguaggio autonomo ma confederale.
Uno dei meriti più interessanti di questo lavoro di Illuminato è iconologico, direi, riguarda l’evidenza del fatto che la celebre bottiglietta della Coke è una colonna greca in formato tascabile e refrigerato, fa trasparire il fusto scanalato della robusta colonna dorica, ne accentua il rigonfiamento dell’enfasi affinché la si possa cogliere meglio al volo quando sprigiona fuori dal ghiaccio, insomma è un pezzo importante del tempio – qualche che sia la destinazione effettiva di questo messaggio subliminale. La bottiglia dl design classico è nata in un’epoca borghese in cui la gente aveva anche altro, fra l’altro, sete di colonne, principi, solide basi, ciò che oggi non è più valido né possibile.
Pur mettendo in risalto la citazione achitettonica e templare che ha dato forma alla prima originale Coke – così che la veda chi non lo sapesse – Illuminato però non si abbandona né alla scenografia dei templi né al diroccare dechirichiano delle colonne in rocchi, poiché non gigioneggia in revivals; ma piuttosto s’inventa in composizioni dinamiche che. Trasponendo l’attenzione della bottiglia alla bevanda – inscenano in geometrie danzanti da music-hall l’accumulo di energia, di freschezza e di bollicine, che costituiscono l’anima liquida, passando la Coca-Cola alla Walt Disney. C’è un calore istintivo in questa affabulazione plastica, più di un alone diffuso. Alone primo, la forma: lo stile neoclassico del recupero colto, il modellato della carta pressata, la scultura come corazza ma fragile; nonché il linguaggio assemblativo della manualità che riunisce, nell’unicità dell’oggetto d’arte, il molteplice delle catene di montaggio, e coreografa le bottiglie di Coca-Cola tra il balletto e l’architettura.
Secondo alone, la scena: quel guizzo di riunire, credo per la prima volta, ben quattro figure stereotipe del consumo di qualità, a di massa. I quattro cavalieri del benessere; fra i quali entra in scena, sempre per la prima volta, la popolare Fiat 500 di un lontano boom economico che fu la cicala fra il topolino e il maggiolino.
E l’alone centrale. Il tema: dire coca alla coca e vino al vino, intitolando la mostra con la sua maschera più immediata – lo Status symbol – senza cincischiare sul design dell’orologio o dell’utilitaria… Sono questi i punti di forza della quadrupla icona variamente modellata da Illuminato, un’artista sobria e diretta nel plasmare le similitudini fra le cose, fra gli swatch e i cerchi delle bottiglie che sembrano segnare l’ora.
Ho veduto inoltre nel suo studio una serie di bellissime carte nere e buie, di carte notte, che direi puriste se non mostrassero il lucore primordiale della lava fredda. Si tratta di superficie profonde, di pitture addensate sul supporto, di un colore che non è un colore per tutte le percezioni individuali. Sono presenze che oscillano tra la pura energia immateriale e la materia ormai inerte, quasi l’artista tentasse la trasformazione impossibile (per ora) dell’energia verso la materia: simulabile soltanto attraverso l’arte. Sento che Dorfles ammira l’energia “vulcanica” di questa artista nata sulle pendici dell’Etna; io preferisco ammirarla per le sue doti di calma e saggezza che, per restare in Magna Grecia, definirei olimpiche. Così pure apprezzo molto il silenzio metafisico dei suoi oggetti mitologici che sarebbero piaciuti, immagino, ad Alberto Savinio.
La maggior difficoltà nel comunicare con la natura ambigua dei simulacri sta nell’individuare chi è colui che veramente parla attraverso la loro bocca muta. Chi parla tramite le pitture statuarie di Maria Teresa Illuminato? Non la Fiat né lo Swatch né gli altri dei – e neppure l’artista, che sa come dire tutto con la sola superficie di quel che mostra, il solo rilievo dei suoi prodotti di riferimento. Tocca a ognuno di noi fare domandare ad oracoli per bocca loro, un po’ come siamo lesti a fare noi critici, per quanto inascoltati. Chiunque può farlo purché conosca il linguaggio delle bollicine.